sabato 27 ottobre 2018

Di Maio versus Draghi

Nella polemica tra Di Maio e Draghi ha ovviamente ragione Di Maio. O, meglio, ha ragione Paolo Savona.
Draghi avrebbe dovuto distinguere i rischi del sistema Italia e distinguere quali sono le  possibilità di intervento della BCE. Avrebbe dovuto correttamente dire che l'aumento del pagamento degli interessi sul debito (semplificato ormai urbi et orbi nello "spread") è un problema di medio-lungo periodo che riguarda lo Stato italiano e su cui la BCE non interverrà. Ma dallo stesso problema deriva un rischio per la tenuta del sistema bancario italiano e quello È PIENAMENTE un rischio di competenza della BCE. Invece che gettare dubbi allarmistici ("avvelenare il clima", locuzione perfetta) Draghi avrebbe dovuto dire che è compito della BCE evitare che il sistema bancario italiano entri in crisi.
Alla obiezione che gli sarebbe stata posta, ovvero che per evitare ciò, gli strumenti a disposizione della BCE sono gli stessi che impedirebbero allo spread di aumentare, ab origine, (e quindi avrebbe finito per aiutare lo Stato italiano, ciò che non è suo compito) Draghi avrebbe dovuto e potuto correttamente dire: "La BCE farà solo quanto sarà necessario. E sarà sufficiente". Fine della storia. Lo spread sarebbe tornato a 200 nel giro di pochi giorni e lì sarebbe rimasto fino alle elezioni europee.
Perchè Draghi non l'ha fatto? La risposta è semplice. Draghi non è lì su quella poltrona a Francoforte come italiano o finto italiano. Non deve dare giudizi tecnico-economici (che il presidente della BCE debba essere un economista è, in fondo, un incidente di percorso). Draghi compie azioni POLITICHE e presidia un POTERE POLITICO che è quello eminentemente oligofinanziario. Ragiona come un politico che detiene un potere. Ma in questo scontro di potere in atto è, al momento, dalla parte del clan perdente (i poteri oligofinanziari non sono un monolite, anzi, si scontrano spesso - continuamente - al loro interno) o forse sarebbe più corretto dire, deve tenere in equilibrio più piatti sull'asticella come un bravo funambolo.
Per cui, all'Italia va data libertà di manovra ma al tempo stesso la si deve tenere al guinzaglio, un guinzaglio né troppo stretto, né troppo lungo. Hai visto mai, infatti, che al cagnolino Italia cominci a piacere un po' troppo la libertà?

lunedì 4 giugno 2018

In morte di Soumaila Sacko


Ma a voi sembra normale che un ragazzo nel pieno delle sue forze fisiche e morali, invece di lottare per i propri diritti nel suo Paese e cercare di costruire lì uno Stato più forte ed indipendente, venga catturato in un sistema che tritura le vite e lo porta a farsi schiavo in un Paese straniero e a vivere in una baracca come un animale? E ad essere ammazzato come un cane?
In questa fase storica l'emigrazione di massa è un perverso e perfetto ingranaggio di quel sistema più ampio che si chiama sviluppo capitalistico. In tale ingranaggio va messa una zeppa e quindi bloccato o continuerà a produrre morte e sfruttamento, senza fine. 
Questo è ciò su cui le nostre comunità devono intervenire come obiettivo primario. Le grida al razzismo di stato da parte di chi, finora, non ha fatto altro che creare un business sulle tragedie altrui, fanno solo e letteralmente schifo. 
Non li voglio nemmeno aiutare a casa loro. Che ci restino a casa loro e si aiutino da soli, ne hanno tutte le risorse e possibilità, e si oppongano con tutte le loro forze a noi "occidentali" da cui finora hanno avuto riservato solo il peggio che il nostro mondo abbia prodotto.  
Si badi bene, sia da quelli che li volevano scientemente sfruttare, sia da quelli che pensavano di "educarli". La civiltà africana non ha bisogno della nostra civiltà razzista, tanto meno nella variante "buonista".

giovedì 10 maggio 2018

Il capolavoro


A tutti quelli che “Ti rimandiamo a vendere le bibite al San Paolo”.
A tutti quelli che “Giggino o ciuccio” o “Giggino 'a poltrona”.
A tutti quelli che “sono incapaci, sono inesperti”.
A tutti quelli che “ma la squadra di governo non si presenta mica prima!”.
A tutti quelli che il 5 marzo “Già pronto il governo col Pd, la lista dei ministri sorosiani e la Bonino agli Esteri”.
A tutti quelli che “Honestààààà”.
A tutti quelli che “Traditori!”.
A tutti quelli che “il MoVimento ora si sfascia”.
A tutti quelli che "è la prima volta che un milanese frega un napoletano".
A tutti quelli che "per fortuna che abbiamo Mattarella come presidente".
A tutti i Galli della Loggia e a ciò che rappresentano: A brutti! (punto esclamativo) È ora che ve ne annateeeee!!! (tre punti esclamativi).
A tutti quelli che di mestiere fanno i rancorosi sul web.
A tutti quelli che hanno sempre capito tutto ma non ci azzeccano mai. Anzi, quasi mai. Non azzeccarci mai sarebbe già una dote che li eleva oltre la loro perenne mediocrità.
A tutti quelli che “comunque il merito è stato tutto di Salvini”. Che, per carità, nessuno glieli nega i meriti sacrosanti ma… anche sticazzi!

E adesso comincia il bello ed il difficilissimo: ridare (o forse dare, per la prima volta) una sovranità popolare a questa Repubblica. 



Morphing: Di Maio - Salvini

mercoledì 25 aprile 2018

Silvio, ancora tu?! Come uscire dal reality show

Il dato politico più importante di questi ultimi giorni è il seguente: Nino Formicola, il Gaspare di quello che fu il noto duo comico Zuzzurro e Gaspare, ha vinto l'Isola dei Famosi.
È l'immagine di una Italia nostalgica, quando la comicità era quella roba da Drive In che, tra un blocco pubblicitario ed un altro, ti faceva ridere per venderti meglio un prodotto. Stavamo meglio, forse, in quell'Italia. Avevamo la lira invece dell'euro. A Roma c'erano i rituali paludati della politica ma Milano era tutta da bere.
Formicola è anche l'immagine di un uomo che ha avuto soldi e successo e poi si è trovato nel cono d'ombra della solitudine e dell'oblio. Ha attraversato momenti duri e bui ma ha avuto la forza, ormai avanti negli anni, di rialzarsi e conquistare una nuova possibilità di vittoria. Come un lampo, dentro al televisore, si è ripreso la scena.
Insomma, Silvio Berlusconi ha vinto l'Isola dei Famosi.
La politica è un reality show, ormai. Ne ha tutti i meccanismi drammaturgici. Basta vedere le vicende di queste consultazioni post-elettorali per la formazione del Governo. Complotti, tranelli, gossip, intrighi, scandali e scandaletti. Quelle dei politici non sono più storie umane ma “percorsi”. Su tutto, tanto tanto tanto chiacchiericcio da salotto televisivo, che si spande su ogni palinsesto. Se la politica è un reality show, è evidente che il dott. Silvio si riprenda la scena. È un maestro in questo.
C'è tuttavia un dato di realtà politica, non di reality, che è insopprimibile. Il M5S e la Lega, le due forze che sono uscite rafforzate dalle elezioni e che rappresentano il cambiamento rispetto alla politica tradizionale, hanno insieme la maggioranza in Parlamento. Sono anche maggioranza nel Paese, oltre che per numeri, dal punto di vista sia politico che sociologico. Nella realtà queste due forze un accordo di governo l'avrebbero già raggiunto, ma nel reality c'è Silvio di mezzo. E Salvini non può certo abbandonare l'alleato poiché, è regola non scritta ma perentoria, se tradisci l'amico e lo mandi in nomination per vincere il programma, e il pubblico se ne accorge – se ne accorge sempre – poi al televoto ti massacra.
E allora bisogna uscire dal reality e tornare alla realtà.
Ci sono due percorsi possibili (uno non esclude l'altro), partendo dal dato insopprimibile della maggioranza numerica e socio-politica, per renderla effettiva maggioranza parlamentare.
Il primo percorso è lineare: si prende atto che il centrodestra non può dividersi in questa legislatura. È anche giusto. I molti candidati dell'uninominale sono stati eletti con i voti della coalizione, non dei singoli partiti.
Indipendentemente dalla formazione di un Governo, si formi dunque un asse parlamentare tra M5S e Lega che si accordi essenzialmente per fare due cose: predisporre un DEF (Documento di Economia e Finanza) condiviso ed il più dettagliato possibile, ipotecando così la manovra finanziaria che sarà approvata a fine anno. Ciò si può realizzare nelle commissioni parlamentari o creando un tavolo programmatico apposito.
Fare, quindi, una nuova legge elettorale che tolga di mezzo le coalizioni. Il sistema spagnolo, già proposto dal M5S nella scorsa legislatura, andrebbe benissimo: un proporzionale con collegi piccoli che tende a premiare le formazioni più grandi ma salvaguardando quelle con forte insediamento territoriale. A settembre-ottobre si torna a votare.
Nel futuro Parlamento l'accordo di governo tra M5S e Lega sarebbe così uno sbocco del tutto naturale. Le due forze potrebbero siglare un accordo tra gentiluomini sulla base dei rispettivi rapporti di forza per la guida del Governo. Se una delle due forze prevalesse nettamente, ad esempio con oltre dieci punti di margine, esprimerà senz'altro la Presidenza del Consiglio. In caso contrario sarà una scelta condivisa, magari su una figura terza.
Il secondo percorso è spettacolare (in senso situazionista): Di Maio dovrebbe ingaggiare direttamente Berlusconi senza preoccuparsi ormai di rimetterlo in tal modo al centro della scena, che si è già conquistato da solo.
Ingaggiarlo significa sottrarlo al reality ed inchiodarlo alla realtà: incalzandolo, stanandolo, soverchiandolo di proposte e costringendolo a rispondere sui dati reali. Anche durante faccia a faccia, in streaming, in televisione: ci sta a fare una legge di riforma del sistema radio-televisivo? Una legge sul conflitto di interessi? Sulla lotta alla corruzione?
Andare a vedere ogni suo bluff anche a costo di farci un governo insieme, purché il M5S ne abbia un effettivo controllo (anche senza la presidenza del consiglio a Di Maio ma su una direttrice solida con la Lega) per alzare continuamente la posta del rinnovamento, sfidandolo. Così dimostrando ciò che il dott. Berlusconi è in realtà: un uomo anziano e stanco, strenuamente aggrappato al potere per difendere i suoi interessi, non quelli del Paese. Solo in questo modo il centrodestra potrebbe lacerarsi ed implodere, ed a farlo saltare potrebbe essere lo stesso Berlusconi. Ma M5S e Lega la maggioranza ce l'hanno anche senza di lui.
Ah, Nino Formicola ha svelato il segreto della sua vittoria all'Isola dei Famosi. Non si è comportato come un concorrente ma come un normale spettatore. Vuoi vedere che, a questo giro, anche sessanta milioni di spettatori italiani possono vincere il loro reality show?

domenica 15 aprile 2018

Previsioni sulla situazione internazionale


Negli scorsi anni, in un paio di snodi fondamentali dei fatti internazionali (gli attacchi terroristici a Charlie Hebdo a Parigi e l'elezione di Donald Trump), mi è capitato di scrivere degli articoli in cui, oltre alle analisi, mi lanciavo in previsioni su quella che sarebbe stata la situazione internazionale in divenire. Esercizio utile per verificare se le categorie analitiche che si utilizzano sono valide per interpretare la realtà.
Rileggendo quegli articoli ora, a tre anni e un anno e mezzo di distanza, appaiono in buona parte esatti. Vi sono contenuti ovviamente errori ed approssimazioni, le scansioni temporali sono sbagliate, tuttavia nel merito colgono i nessi fondamentali. 

Circa quanto scrivevo nel primo articolo, oggi si può rilevare, sulla Libia, come il generale Haftar abbia condotto una politica dei due forni, mantenendo buone relazioni anche con la Russia, senza indispettire troppo l'Occidente. La parte più filo-occidentale appare quella tripolitana rappresentata da Al-Serraj. Ora Haftar sarebbe gravemente malato (attenzione ai segnali: ricoverato in un ospedale di Parigi). La situazione libica è ancora molto incerta ma il controllo delle potenze occidentali non pare in pericolo.
Sulla Siria, quello che definivo “congelamento” sembra essersi ormai consolidato in una sorta di spartizione delle zone d'influenza. La piena sovranità nazionale siriana non sembra ripristinabile. 

Anche sul secondo articolo si possono svolgere alcune considerazioni, col senno di poi: la distensione con la Russia in realtà non è avvenuta. La tensione diplomatica rimane altissima anche perché la fronda interna agli Stati Uniti che preme per normalizzare Trump (ovvero prosciugargli ogni possibile tentazione di autonomia dal deep state) spinge ancora molto sui rapporti con la Russia impedendo al presidente americano qualunque forma di distensione che sarebbe subito tacciata di intelligenza col nemico. Ma non è escluso che, se la situazione interna americana si normalizzasse, tale distensione potrebbe avviarsi.
Per quanto riguarda il Medio Oriente, l'attacco allo sciismo politico sembra essere appena all'inizio. Nei prossimi due anni una guerra di grosse dimensioni che ingaggi sempre più l'Iran, per procura o stavolta direttamente, appare sempre più probabile. Su un altro scacchiere, la tensione sul Venezuela non sembra destinata ad ammorbidirsi. Anche qui, il rischio di una guerra è sempre incombente.

Ripropongo dunque i punti salienti delle previsioni (in coda i link per chi volesse rileggerli integralmente anche nella parte di analisi).

 
Dall'articolo: “Destabilizzare per stabilizzare. Vale anche per gli attacchi di Parigi?” (gennaio 2015): 


"Cosa dobbiamo aspettarci nel prossimo futuro, in uno scenario di sei mesi, un anno? Nessuna sfera di cristallo. Facciamo ipotesi che potranno essere falsificate dagli eventi, che naturalmente non si evolvono per forza in modo lineare.
1. I canali di sostegno al jihadismo, in particolare i miliardi delle petromonarchie del Golfo, saranno progressivamente prosciugati. Ciò dovrebbe portare al prevalere in Libia delle componenti più filo-occidentali (come le milizie del generale Khalifa Haftar) senza escludere un nuovo intervento diretto delle potenze occidentali, come successo al tempo della caduta di Gheddafi, stavolta per combattere il terrorismo islamico. Stesso scenario per l'Iraq, dove il Califfato verrà ridimensionato e forse sconfitto da un rinnovato impegno congiunto tra forze occidentali e irachene. Più complicata la risoluzione della crisi siriana in cui Assad, sostenuto da Russia e Iran, ha resistito magnificamente ai colpi jihadisti e dove non si scorge al momento una componente sul terreno su cui l'Occidente possa fare leva. Ritengo dunque probabile una sorta di congelamento sul campo ricostituendo ex novo una forza di intervento che possa agire sotto ordine diretto e non più per procura.
2. Si potrà assistere all'inaugurazione di un processo di democratizzazione dell'Arabia Saudita, magari solo di facciata ma sufficiente per scongiurare l'imbarazzo dell'alleanza ingombrante con il wahabismo islamico più retrogrado. Il dito sarà puntato verso la Turchia, la cui dirigenza dovrà moderare il suo profilo musulmano e l'appoggio ad alcune componenti radicali.
3. A rischiare di saltare sul crollo del prezzo del petrolio sarà prima il Venezuela bolivariano che il settore shale americano.
Infine non si può evitare di spendere alcune parole sulla straordinaria operazione di psicologia di massa successiva agli attacchi parigini. Si poteva pensare ad un assist clamoroso alle politiche antieuropee ed anti-immigrazione di una Marine Le Pen già in ascesa, invece tale eventualità è stata sventata dalla mobilitazione per l'unità nazionale repubblicana che si è fatta interprete ed ha cavalcato tanto le paure quanto l'orgoglio nazionale, mettendo proprio la Le Pen in un angolo. […] E di certo non sarà sprecata la cascata di isteria islamofoba, che è andata a conficcarsi nelle coscienze di milioni di persone, anche quando il Califfato dovesse essere sconfitto. Ci sarà pur sempre un altro nemico da sventolare per risvegliarla. Se non sarà più in scena lo jihadismo, sarà fabbricato lo spauracchio fraudolento delle orde sciite fanatiche, armate di bomba atomica, pronte a distruggere il mondo".



Dall'articolo “Trump è la fine del '900 non dell'Impero americano” (novembre 2016):


"Le élite americane hanno scelto di porre Donald Trump alla guida pro-tempore dell'Impero non perché il sistema sia impazzito, ma perché è sembrato essere il candidato più adatto per questo tempo. Come lo sono stati Reagan, Clinton o lo stesso Obama. Tutti presidenti formidabili per il loro tempo, dal punto di vista dell'Impero.
A Trump, o meglio alla sua Amministrazione, saranno affidati questi compiti.
Ripristinare e proteggere l'economia interna ricostruendo le sue basi fondamentali. Stati Uniti di nuovo come motore produttivo, manifatturiero, con piena occupazione. Fine delle delocalizzazioni selvagge.
Distensione con la Russia ma senza cedere nulla di quanto conquistato finora. Congelamento dello status quo, fine delle aggressioni, reciproco rispetto formale e collaborazione laddove gli interessi fossero convergenti.
Massima competizione commerciale ed economica con la Cina ma senza spingere al momento sull'acceleratore del confronto militare. Massimo sostegno alla cintura di contenimento anti-cinese sul Pacifico, dalla Corea del Sud al Giappone, dalle Filippine al Vietnam, dalla Thailandia al Myanmar. La Cina, per ora, non va affrontata ma accerchiata e colpita ai fianchi. Sul medio periodo si dovrà alzare sempre più l'asticella della competizione globale e porre Pechino davanti ad una scelta strategica: accettare la supremazia americana in cambio di una parziale condivisione dei dividendi dell'Impero oppure il confronto militare, sempre più aggressivo.
Concentrarsi nell'immediato sullo scacchiere mediorientale, lo scenario più urgente. Fine della sponsorizzazione del jihadismo sunnita, che ha esaurito in quell'area la sua funzione, e spinta verso la democratizzazione delle petromonarchie del Golfo, a partire dall'Arabia Saudita. Il nemico principale, tuttavia, torna ad essere lo sciismo politico e i suoi alleati, il cosiddetto asse della resistenza, e il suo centro nevralgico, l'Iran.
Sostanziale freddezza per tutto l'apparato delle organizzazioni e dei trattati sovranazionali. Si favorirà il ritorno agli stati nazionali a sovranità controllata. Organizzazioni come l'Unione europea hanno fatto il loro tempo. Non saranno difese ad oltranza se lo spirito del tempo spingerà verso la loro dissoluzione".

Per chi volesse leggere integralmente gli articoli, soprattutto per la loro parte di impostazione analitica:
Destabilizzare per stabilizzare. Vale anche per gli attacchi di Parigi?

Trump è la fine del '900, non dell'Impero americano

venerdì 13 aprile 2018

L'Italia, l'alleanza occidentale e la Siria

Nell'articolo raggiungibile al link in coda a questo commento, potrete leggere una analisi assennata e ragionevole sulla situazione diplomatica e politica in relazione alla Siria: rispettare l'alleanza atlantica (finché essa è in corso e non sia, eventualmente, ridiscussa) non vuol dire accettare di avere un ruolo, anche di solo appoggio logistico, in ogni avventura bellica decisa dagli Usa o da altri paesi europei. 
La situazione italiana è poi peculiare. 
Sul nostro territorio abbiamo sia basi Nato che basi semplicemente americane. Per le prime dovrebbe essere chiara la loro indisponibilità: la Nato è una alleanza difensiva e la Siria non sta minacciando alcun paese dell'alleanza (anzi, è il contrario). 
Sulle basi americane il discorso è delicato: cosa prevede il trattato sul loro utilizzo? L'Italia è sovrana? Può decidere se concedere o meno le basi per un loro utilizzo specifico in un dato frangente? È tempo che il nuovo Governo, quando nascerà, risolva questa questione e verifichi se ci sono clausole segrete (sottratte alla conoscenza del Parlamento) circa il nostro stato di sudditanza verso gli Stati Uniti. 
Abbiamo perso un guerra ma sono trascorsi anche settanta anni da quella sconfitta. Sarà ora di poter tornare a decidere del nostro destino? 

La differenza tra alleati e zerbini


martedì 10 aprile 2018

Di Maio, la coerenza e la Realpolitik

Destano scandalo, in certi ambienti che hanno qualche rappresentanza sui social, molto meno nella società, le posizioni politiche che sta assumendo Luigi Di Maio. La cosiddetta “apertura” al Pd per la formazione di un nuovo governo e l’aver ribadito, nel messaggio all'uscita dalle consultazioni con il presidente Mattarella, la volontà di rimanere nell'alleanza occidentale, nel Patto atlantico, nella Ue e nell'euro, sono state salutate come un tradimento, l'ennesima giravolta, un esempio di magnifica incoerenza.
In realtà, niente di nuovo sotto il sole.
Durante la campagna elettorale Di Maio ha ripetuto, come un mantra, che in caso di mancata maggioranza avrebbe rivolto un appello a tutte le forze politiche (a tutti i gruppi parlamentari) per formare un governo a guida 5 stelle partendo dal suo programma ma raccordandolo con le altrui priorità. Dunque, Di Maio sta perfettamente rispettando il mandato elettorale nel momento in cui si rivolge alla Lega ed al Pd per instaurare un confronto da cui possa scaturire un accordo di governo sulla base di un contratto programmatico “alla tedesca”.
Nemmeno le pretese novità sulla linea politica (Nato, Ue, euro) sono nuove, anzi, erano state anche queste chiaramente espresse durante la campagna elettorale.
In più di una occasione Di Maio aveva ribadito di volere mantenere l'Italia all'interno delle alleanze politico-militari occidentali. Non per questo, in linea con quanto espresso nel programma elettorale, si dismette la volontà di aprirsi al multilateralismo, di cessare la russofobia imperante revocando le sanzioni a Mosca e ritirando l'Italia dalle esercitazioni militari in Europa orientale (e da altre missioni di guerra come in Afghanistan).
Nella visione complessiva del MoVimento, l'Italia dovrebbe riconquistarsi nel contesto internazionale il primato di grande mediatore diplomatico e di pace, ruolo che aveva già svolto, durante la guerra fredda, verso l'Urss o nel Mediterraneo. Un ruolo che si erano faticosamente ritagliati statisti come Andreotti, Moro, Craxi, che erano tuttavia legati a doppio filo con l'Occidente. Ruolo che lo stesso Berlusconi ha cercato di giocare, più recentemente, salvo poi tradire in maniera clamorosa gli interessi nazionali (si veda il caso Libia). Certamente non la stessa statura di un Aldo Moro che ha invece pagato con la vita quella sua visione da statista.
Circa le relazioni europee, il MoVimento non ha mai espresso la volontà di uscire dalla Ue (e nessun partito con un seguito di massa, nemmeno la Lega, ha mai sostenuto questa posizione), quanto semmai di voler ridiscutere profondamente le politiche europee, soprattutto quelle relative all'austerità, e laddove tali politiche fossero diretta conseguenza di norme dei Trattati, ridiscutere i Trattati. Solo in seguito al fallimento di tale confronto si potrà rivalutare la strategia. Si può ritenere questa linea politica velleitaria ma non si può tacciarla di incoerenza o gridare al tradimento. Essa è sempre stata delineata in maniera chiara.
Qualcosa di simile vale per l'euro. La posizione dei 5 stelle è sempre stata di considerare la moneta europea come tecnicamente sbagliata e di non essere stata adottata, previo ampio dibattito pubblico, col consenso formale degli italiani. Per questo si era evocata la possibilità di un referendum consultivo e si era proceduto con una raccolta firme per rafforzare la proposta e far diventare prioritario nell'opinione pubblica il dibattito sull'euro. Da lì, la linea politica si è evoluta, non è cambiata nei suoi fondamentali.
Di nuovo, nemmeno i responsabili economici della Lega, che è il partito di massa più euroscettico, sostiene che si debba (che si possa) uscire dall'euro domattina. Anzi, a meno di voler innescare una catastrofe, si prospettano una serie di passaggi preparatori necessari, ognuno dei quali positivo in sé per il sistema paese (come una forte banca pubblica, la creazione di monete alternative, ecc.), che all'esito definitivo potrebbero anche non portare all'uscita unilaterale dalla moneta unica. Tutto dipende dalle condizioni e dall'evolversi delle condizioni.
La linea del M5S, abbracciando totalmente un approccio di Realpolitik, è proprio quella di verificare e interagire con tali condizioni che dipendono da innumerevoli fattori economici, sociali, politici e soprattutto dai rapporti di forza internazionali. Solo un paio di anni fa le condizioni politiche erano diverse dalle attuali e vediamo sotto i nostri occhi quanto si modifichino in fretta. Approcciare tali questioni in senso dogmatico non condurrebbe ad alcun esito favorevole. Sarà una sfida e un confronto che richiederà enorme capacità politica. Si può pensare che la dirigenza pentastellata sia del tutto inadeguata per tale scopo, ma questo processo è stato ben spiegato in campagna elettorale e gli elettori in buona parte hanno dato loro fiducia. Dunque non è in corso alcun tradimento.
Il MoVimento Cinque Stelle è una forza politica post-ideologica. Una forza populista, nel senso alto del termine. Essa si muove costantemente nel perimetro politico del possibile. Non è una forza avventurista, né estremista, né antisistema. È una forza di cambiamento, anche radicale, ma non rivoluzionaria in senso classico. Siamo appena all'inizio di un percorso che si preannuncia lungo ed incerto. Tatticismi e strategie si alterneranno prima che questa fase si esaurisca e si potranno cominciare a dare alcuni giudizi perentori.