venerdì 30 marzo 2018

M5S-Lega: questo matrimonio non s'ha da fare?

Secondo diversi analisti dalle urne del 4 marzo sarebbe uscito un «nuovo bipolarismo».
Il M5S sarebbe la «nuova sinistra» (cit. Eugenio Scalfari) a cui il Pd dovrebbe disperatamente aggrapparsi per non sprofondare ancora. A destra la Lega di Salvini avrebbe ormai egemonizzato quell'area relegando il vecchio Berlusconi ad un ruolo di comprimario.
I propugnatori del neobipolarismo, coerentemente, auspicano che la partita per il governo della XVIII legislatura finisca con un accordo tra M5S e Pd. Il Fatto Quotidiano, con Travaglio e Padellaro, è il più schierato su tale ipotesi. Ad avviso di chi scrive compiono un errore fondamentale poiché confondono i desideri con le analisi.
Ragionando ancora in termini di dicotomia destra/sinistra, costoro ritengono tale sbocco come il più naturale. Si andrebbe a riformulare un bipolarismo analogo a quello conosciuto nella seconda Repubblica, con attori più o meno diversi ma giocato nello stesso teatro. Sarebbe quanto di più innaturale, invece. Una sola considerazione sarebbe sufficiente ad abbattere tale prospettiva.
Una alleanza tra 5Stelle e Partito Democratico, ancor prima di cominciare a lavorare, dovrebbe smantellare l'eredità lasciata dai governi nella legislatura precedente.
Dunque fare a pezzi la legge Fornero, il Jobs Act, la cosiddetta BuonaScuola, il decreto Lorenzin sulle vaccinazioni obbligatorie... La lista potrebbe continuare.
Di converso, oltre a quelli citati, si potrebbero enumerare decine di punti su cui costruire una convergenza construens tra M5S e Lega. Certo, ci sono anche differenze, talune profonde, culturali (“genetiche” come ebbe a dire il neo presidente della Camera Roberto Fico – che pure dai leghisti è stato votato – ) e specialmente alcune ricette economiche.
Forse reddito di cittadinanza e flat tax non sono compatibili, ma, in una prospettiva di governo non è detto che esse debbano essere implementate immediatamente e insieme. Come ha sostenuto il responsabile economico della Lega, Claudio Borghi, se Salvini gli desse l'ordine, in una settimana lui l'accordo coi 5stelle lo troverebbe. Del resto, fuori dai titoli e guardando alla sostanza, sia il sostegno alla povertà accompagnato dalla creazione di nuova occupazione che una importante riduzione della tassazione sono principi cardine nei programmi di entrambi.

Ma non solo di programmi si tratta. È qualcosa di molto più strutturale e profondo.
Se si abbandonano vecchi schemi interpretativi, la realtà può apparire del tutto diversa. Non più destra/sinistra ma sopra/sotto. I blocchi sociali che hanno determinato la vittoria elettorale di M5S e Lega possono essere anche diversi (almeno in parte) ma anche del tutto complementari. Sono i blocchi sociali di chi sta “sotto”, usando tale termine non in maniera enfatica ma politica. Non sono necessariamente poveri (e ci sono anche quelli, eccome) ma sono sotto in quanto esclusi. Sono i perdenti e impoveriti di quella globalizzazione che non ha condotto le masse popolari verso magnifiche sorti e progressive. E allora si possono trovare dalla stessa parte della barricata imprenditori (specie se piccoli) e operai; disoccupati giovani, magari molto qualificati, e disoccupati adulti con poca qualificazione; lavoratori autonomi a cui non basta nemmeno più l'evasione di sopravvivenza e dipendenti statali che faticano ad arrivare a fine mese; giovanissimi senza alcuna prospettiva ed anziani con pensioni da fame. È l'Italia che ha bisogno di un nuovo patto sociale: sul lavoro, sul fisco, sul risparmio, sull'istruzione, sulla previdenza.
Dal punto di vista geografico la rappresentazione è addirittura plastica ed emblematica. Per ragioni storiche ed antropologiche queste masse popolari hanno votato al sud prevalentemente per il M5S ed al nord per la Lega, ma i bisogni a cui chiedono risposta sono, in ultima analisi, gli stessi. E anche gli avversari da battere sono gli stessi, al sud come al nord.
Dall'altra parte c'è un blocco sociale sufficientemente numeroso ma in via di progressiva polverizzazione. Gode ancora di una rendita di posizione che gli arriva soprattutto dal passato. Tendenzialmente è anagraficamente avanzato. È scolarizzato e professionalmente attivo. È soprattutto urbano e risente marginalmente delle minacce alla sua sicurezza, sotto ogni aspetto. Politicamente è anch'esso diviso tra destra e sinistra, votando Pd, Forza Italia e altri partiti minori moderati, ma la possibilità di una sua fusione è molto più prossima di quanto possa apparire in superficie.
Sociologicamente è rappresentato da Maria De Filippi. Sotto i riflettori del suo salotto televisivo, analogo a tanti salotti italiani, possono tranquillamente stringersi la mano, senza inorridire, i tanti Saviano e i tanti Briatore che popolano questa Italia.
Questo establishment che ha governato a fasi alterne il Paese dagli anni '90 (ma, in forme diverse, anche prima) ha due modi per mantenersi ancora al potere. Unendosi, superando la dicotomia destra/sinistra e trovando una nuova rappresentanza politica, e sperando che gli avversari non facciano altrettanto. Oppure rimanere nello stesso schema di gioco tradizionale alleandosi strumentalmente con una delle parti avversarie, in questo modo neutralizzandone le aspirazioni e dinamiche volte ad un radicale cambiamento. È ciò che ha fatto Berlusconi con la Lega di Bossi in tutti questi anni, con una operazione efficacissima e geniale. Ma le basi sociali che consentivano con successo quell'operazione si stanno sfaldando. Il giochino non regge più e si rompe.
Come si diceva, la nuova polarizzazione dettata dalla forza della storia è tra coloro che dallo status quo hanno ancora qualcosa da sperare ed aspettarsi (fossero anche briciole) e coloro che dallo status quo non hanno più niente da aspettarsi né da sperare.
Non è una prospettiva nuova, del resto. In particolari momenti di svolta della storia italiana si sono sviluppate saldature fra blocchi politici altrimenti divisi da linee di faglia (geografiche, sociali e culturali). In relazione ad esempio alla fase successiva all’unificazione dell’Italia, Antonio Gramsci individua un «blocco storico» dominante costituito dagli industriali del nord e dagli agrari del sud. Il concetto di “blocco storico” è una suggestione interessante anche in una situazione totalmente mutata, laddove vi sia comunque una saldatura di interessi che abbia l’ambizione di reggere un Paese con un compromesso di grande portata.
Negli anni '70 Berlinguer e Moro immaginarono proprio un “compromesso” (anche quello “storico”), tra le vaste comunità legate ai due maggiori partiti di massa dell'epoca, il PCI e la DC, per sottrarsi dalle rispettive tutele, sovietica e atlantica, e giocare una partita nazionale, oggi diremmo sovranista, appoggiandosi reciprocamente sulla forza popolare dell'altro.
In quel contesto fu lucidissimo Berlinguer quando comprese e scrisse che al PCI non sarebbe stato possibile governare da solo nemmeno con il 51%. Non si trattava di una considerazione numerica ma relativa ai rapporti di forza politici. Allora, come oggi, forze antagoniste rispetto al sistema (senza essere necessariamente anti-sistema) non sarebbero riuscite a governare senza avere alle spalle il consenso di ampie forze popolari, trasversali, provenienti dai vari blocchi che compongono la società.

È utile qui una digressione. Si sostiene che una alleanza populista nuocerebbe soprattutto al M5S che ha nel suo elettorato una forte componente di “sinistra”. Si tratta di considerazioni superficiali e miopi.
L'analisi dei flussi elettorali del 4 marzo realizzata da Ipsos è molto istruttiva. Un dato è sorprendente. Rispetto al 2013 solo il 76% di chi allora aveva votato per il M5S ha mantenuto il suo voto nel 2018. Significa 2 milioni di voti in meno per il MoVimento. E significa che sono stati conquistati ben 4 milioni di nuovi voti.
I voti in uscita sono andati nell'astensione o verso la Lega. I voti in entrata sono arrivati da precedente astensione, dai nuovi primi votanti (la fascia dei 18-23 anni), e, rispetto ai partiti, soprattutto da chi precedentemente aveva votato Pd e Scelta civica.
Questi ultimi, ad avviso di chi scrive, sono sì voti moderati ed instabili ma sono voti che chiedono un cambiamento forte, non sono voti continuisti. Non si sono spostati per vedere la stessa politica con facce nuove. Vogliono un'altra politica. Sono voti che si sono, socialmente, radicalizzati. Un accordo populista non li perderebbe e, anzi, consentirebbe di recuperare quei due milioni di voti che se ne sono andati in questi cinque anni. Viceversa sarebbe un accordo con il Pd ad essere molto più nocivo per il M5S che un accordo con la Lega, dal punto di vista elettorale.

Passando tuttavia dalla teorizzazione alla pratica politica, sarà davvero difficile vedere un governo con prospettiva di lungo periodo nascere da una alleanza tra M5S e Lega in questa legislatura. In primo luogo per rispetto dell'espressione popolare che non andrebbe mai manipolata.
La Lega si è presentata come parte di una coalizione. Buona parte dei parlamentari leghisti è stata eletta anche con i voti di Forza Italia e FdI nei collegi uninominali. L'etica politica impedirebbe a costoro di portare i loro voti a sostegno di un governo non voluto dall'intera coalizione, né al M5S di accettarli. Tuttavia ciò non impedisce che in questa legislatura, necessariamente di transizione, non si possano gettare i semi per un accordo futuro che possa essere sancito, in modo consapevole, dai rispettivi elettorati alla prossima tornata.
Perché ciò si verifichi sarà necessario partire da una nuova legge elettorale. Sarà forte la tentazione di andare allo show-down con un sistema maggioritario per le due forze vincitrici del 4 marzo. Tentazione comprensibile ma non auspicabile, per tutte le ragioni sopra esposte. L'Italia non ha bisogno di una forza politica minoritaria nel paese ma maggioritaria nelle urne che in maniera unilaterale e autosufficiente imponga le sue politiche. C'è bisogno di almeno una legislatura di concordia nazionale, un governo che goda di un'ampia base popolare, il più possibile trasversale ma omogenea negli obiettivi da perseguire, e che sia radicale nelle scelte da compiere.
Il popolo deve mettersi in marcia. Vedremo se qualcuno sarà capace di fermarlo.

mercoledì 21 marzo 2018

2 riforme istituzionali per uscire dalla palude

Le ultime elezioni hanno certificato che questa Italia politicamente in transizione, tripolarizzata, risulterà difficilmente governabile finché non si definiranno nuove composizioni politiche ed elettorali nel Paese. Vorrei in questa sede proporre due riforme istituzionali che potrebbero aiutare in questo frangente la governabilità e accompagnare il consolidamento di un diverso quadro politico. Si tratta di un nuovo sistema elettorale ed un nuovo strumento referendario di democrazia diretta.


Il sistema elettorale “duplex”.

La particolarità di questo nuovo sistema elettorale è che l'elettore potrà esprimere un voto duplice sulla scheda (da qui la denominazione). L'elettore troverà la scheda divisa in due parti, perfettamente identiche, riportanti ciascuna i simboli di tutte le liste concorrenti (liste singole, non coalizioni). Su ciascuna parte della scheda l'elettore potrà esprimere un voto per una lista, il voto 1 e il voto 2. Il voto 2 dovrà essere necessariamente diverso dal voto 1, altrimenti sarà nullo. L'elettore dunque avrà la facoltà di esprimere due voti per due liste diverse sulla stessa scheda.
La lista elettorale che sarà complessivamente più votata sommando i voti 1 e i voti 2, otterrà tanti seggi in proporzione al risultato ottenuto. I seggi rimanenti verranno distribuiti tra le altre liste in proporzione ai consensi ottenuti esclusivamente con il voto 1.
Facendo un esempio: L'organo elettivo si compone di 100 seggi. Una lista X ottiene il 40% dei voti 1 e il 10% dei voti 2 risultando, complessivamente, la più votata. Ottiene dunque il 50% dei seggi, pari a 50. Le altre tre liste che concorrono alla elezione (lista Y, W, Z) ottengono rispettivamente il 30% di voti 1, il 20%, e il 10%. Concorrendo per l'assegnazione dei 50 seggi rimanenti, la lista Y otterrà 26 seggi (invece di 30, se si fosse trattato di un proporzionale puro, e assegnandole in questo caso anche il seggio risultante dai resti), la lista W 16 seggi, la lista Z 8 seggi.
Il voto 2 risulta dunque essere un vero e proprio premio di governabilità/maggioranza alla lista complessivamente più votata, e funge da correzione di un sistema proporzionale altrimenti puro. A differenza dei premi elettorali vigenti in alcuni sistemi elettorali, che sono premi di entità fissa che scattano al raggiungimento di soglie fisse, nel sistema “duplex” il premio ha entità variabile e viene assegnato alla lista complessivamente più votata. È dunque il voto dell'elettore, nella sua piena e massima espressione, a definire sia l'ammontare del premio che la sua assegnazione.

Il “duplex” assomma dunque in sé le caratteristiche della massima rappresentatività del corpo elettorale, tipica di un modello proporzionale, e della governabilità consistente in un premio, anch'esso deciso dagli elettori, per la lista più votata.

A questo modello si potranno poi applicare, o meno, altri correttivi e tecnicalità varie (soglie di sbarramento, preferenze di lista, criteri di assegnazione dei resti, criteri di raccolta firme per la presentazione delle liste, ecc.) che però non intaccano l'essenza del sistema delineato.
La filosofia che sottende tale modello può essere osservata da diverse angolazioni.
Dal punto di vista dell'elettore, la facoltà di esprimere un voto duplice consente, in particolare per i sostenitori delle liste minori, di votare la lista/partito da cui si sente maggiormente rappresentato e al contempo fare ricorso ad un voto “utile” per indicare uno schieramento da cui essere governato. Il secondo voto, infatti, può essere indirizzato verso quel partito a cui si vorrebbe dare la maggioranza o con cui si vorrebbe vedere coalizzato il proprio partito di appartenenza. Detto più prosaicamente, il voto 1 è il voto del cuore, il voto 2 il voto della testa.
Dal punto di vista delle forze politiche, il voto duplice rivoluziona il modo di fare campagna elettorale. Se il sistema elettorale proporzionale spinge a marcare le differenze con gli altri concorrenti (essendo un sistema che porta allo scontro di tutti contro tutti) la correzione del doppio voto spinge soprattutto le forze maggiori, al contrario, a ricercare confluenze sui temi con altre liste in modo da attirarne il secondo voto dei simpatizzanti.
Inoltre, una volta conosciuti i risultati, la forza che avrà ottenuto il premio, se non avesse la maggioranza assoluta ma essendo perno con la maggioranza relativa, avrà avuto anche una chiara indicazione su di una eventuale coalizione di governo direttamente dall'elettorato: i propri elettori avranno indicato una vicinanza ad altre specifiche liste con il voto 2, gli elettori di altre specifiche liste l'avranno sostenuta consentendole di accedere al premio.


Il referendum legislativo.

Il referendum legislativo ha caratteristiche peculiari che lo accostano, ma rimanendone differenziato, ad altri tipi di referendum attualmente applicati internazionalmente e che sono il referendum propositivo, quello di indirizzo (consultivo) e il confermativo.
Il referendum legislativo prende impulso dal potere legislativo (dal Parlamento) e successivamente si fa appello al corpo elettorale.
Un gruppo di parlamentari (cioè una frazione, comunque minoritaria, della camera di appartenenza – da 1/5 fino al massimo di 1/4 se si vuole ottenere una certa funzionalità – ) sottoscrive una proposta di disegno di legge e la deposita, ad esempio presso la Commissione competente per materia. Entro un congruo termine, un analogo gruppo di parlamentari può presentare, esclusivamente sulla stessa materia, un disegno di legge da contrapporre al precedente. Scaduti i termini, tali disegni di legge sono presentati tramite referendum al corpo elettorale che sceglierà se e quale adottare o respingere. Nel caso di opzioni plurime (più disegni di legge), se nessuna opzione ha la maggioranza assoluta al primo turno, si prevederà un turno di ballottaggio tra le due opzioni più votate. Quando un disegno di legge ottenga l'approvazione del corpo elettorale, si procederà necessariamente alla sua promulgazione.
Per non inflazionare tale strumento si potrà prevedere che durante l'anno solare un parlamentare possa sottoscrivere un numero limitato (anche uno solo) di disegni di legge da sottoporre a referendum popolare.
Anche in questo caso la filosofia del referendum legislativo può essere vista sotto varie angolazioni. Può essere uno strumento particolarmente utile in caso di maggioranza parlamentare eterogenea e per consentire la partecipazione della minoranza al potere legislativo.
Nel primo caso, la maggioranza potrebbe trovare un accordo programmatico di legislatura su alcuni temi, ma essere in disaccordo su altri. Potrebbe quindi trovare un accordo complessivo di governo, utilizzando il referendum legislativo, per dare la scelta direttamente al popolo circa la regolamentazione di determinate materie su cui la maggioranza non ha trovato un accordo, presentandogli diverse proposte di legge contrapposte.
In ogni caso lo strumento è utilizzabile dalle minoranze, purché dotate di una certa consistenza numerica, per far adottare testi di legge, su talune materie specifiche, che avessero il favore della popolazione ma non della maggioranza parlamentare.

domenica 11 marzo 2018

Il post-elezioni, Calenda, e l'effetto Macron

Faccio una previsione: né Luigi Di Maio né Matteo Salvini saranno premier in questa legislatura.
La previsione mi pare evidente perché le elezioni non ci hanno fornito numeri e condizioni politiche affinché ciò possa avvenire.
Esaminiamo le possibili ipotesi.

Alla Camera, dove la situazione numerica è più complicata, alla coalizione di centrodestra mancano oltre cinquanta seggi. Al M5S oltre novanta. Il PD è l'unica forza in campo che potrebbe fornire tali numeri.
Nel primo caso, cinquanta deputati significa la metà del gruppo parlamentare del PD (anche ammettendo il soccorso di qualche fuoriuscito cinquestelle) ovvero non si tratterebbe di qualche gruppetto di “responsabili” che tenta un'avventura personale, ma di una vera e propria scissione necessariamente guidata da qualche big del partito. Questa componente sarebbe votata al suicidio politico poiché non avrebbe alcun futuro. Taglierebbe i ponti con la sinistra (e con il suo elettorato) e non sarebbe mai accettata dall'elettorato di destra. Un governo poi estremamente fragile che non potrebbe durare che pochissimo tempo prima che cominciassero a scoppiare le contraddizioni interne. Insomma, da esponenti della sinistra ne abbiamo viste di ogni, ma questa mi parrebbe davvero troppo anche per loro.
Si potrebbe pensare a un appoggio più organico da parte di tutto il PD, ma sarebbe comunque quasi impossibile, data la posizione subito assunta da Matteo Renzi che, in ogni caso, ha un controllo ferreo su almeno una parte cospicua del gruppo parlamentare (le candidature sono state formate da lui personalmente). Se andasse in porto, si vedrebbe sacrificata la premiership di Salvini a vantaggio di una personalità più digeribile e spendibile per l'elettorato di sinistra (si può pensare ad un Tajani o un Maroni).
Ma a questo punto immaginiamo che sarebbe Salvini a rovesciare il tavolo: è politico troppo intelligente da non capire che se accettasse una situazione del genere si farebbe solo logorare (anche se fosse messo in un ministero prestigioso come gli Interni) e non avrebbe alcun reale controllo sull'attuazione del programma, che verrebbe molto annacquato. Inoltre, un tale governo dovrebbe durare cinque anni (ipotesi ai confini della realtà) e fare benissimo, altrimenti aprirebbe un'autostrada al M5S che alle prossime elezioni avrebbe il cammino spianato verso la maggioranza godendosi, esclusivamente, una rendita di posizione-opposizione.
L'altra ipotesi, appoggio del PD al M5S appare allo stesso modo irrealistica. Qui, oltre tutto, dovrebbe essere tutto il partito, stante i numeri, ad appoggiare la manovra. Nemmeno un PD totalmente “de-renzizzato” (comunque impossibile per i motivi sopra esposti) appoggerebbe nella sua totalità tale ipotesi. Vedete voi realistico che i vari Gentiloni, Franceschini, Delrio, ecc. si possano buttare tra le braccia di Di Maio, perdendo ogni rendita di potere senza avere nulla in cambio se non il “bene del Paese”? Si condannerebbero, definitivamente, all’irrilevanza politica.
Alla fine nel PD rimarrà solo un pugno di personalità (guidate da Michele Emiliano) a prospettare tale soluzione, ma senza seguito.
Esiste solo un'altra possibilità, un accordo tra M5S e Lega. I numeri ci sarebbero ma mancano le condizioni politiche. Non che i programmi siano così distanti, anzi.
Superamento/cancellazione di Jobs Act, legge Fornero, Buona Scuola; taglio a costi della politica, pensioni d'oro, sprechi; lotta alla corruzione; conflitto di interessi; controllo dell'immigrazione; riforma del sistema bancario ed introduzione di monete “alternative” come mini-bot o crediti fiscali; fronte comune per una Europa dei popoli; fine delle sanzioni alla Russia.
Rimangono certo alcune divisioni sulla visione della società che sono macigni e che si possono esemplificare in due temi: reddito di cittadinanza e flat tax. Però, forse, con calma e gesso si potrebbero affrontare.
Ma ciò che, allo stato, differenzia il M5S e la Lega (oltre che una disputa per l'egemonia politica) è una connotazione che oserei definire di antropologia culturale. Basti guardare la composizione di quelli che saranno i gruppi parlamentari. Non ho dati definitivi ma, a spanne, si può dire che i 2/3 dei parlamentari eletti nel MoVimento vengono dal centro-sud (fino a Lazio e Marche) mentre i 3/4 dei parlamentari della Lega sono del centro-nord (da Toscana ed Emilia in su). È una distanza umana prima ancora che politica.
Rimane solo il ritorno alle elezioni, dunque. Non subito, probabilmente, magari la situazione di stallo e i vari tentativi finiranno per portare via un anno. Nel mezzo potrebbe esserci un governo di scopo, istituzionale, per fare una nuova legge elettorale. Ma lo sbocco finale sembra essere segnato.
Ma si andrà alle prossime elezioni nelle stesse condizioni politiche attuali? Personalmente credo proprio di no. Soprattutto immagino che il “sistema” (lo chiamo così per semplificare) incarnato partiticamente da PD e Forza Italia (gli sconfitti di questa tornata) reagirà in maniera risoluta per tornare al comando. Teniamo presente che questi partiti sono stati sconfitti ma non marginalizzati. Se si sommano i risultati di PD, FI e le varie piccole formazioni centriste, si raggiunge un ragguardevole 38%.
Mi ha colpito una notizia, un retroscena, divulgato dalla testata Lettera43 di un incontro a Milano tra Renzi e Berlusconi proprio a ridosso delle elezioni, che sarebbe dovuto restare riservatissimo. Pensate che Renzi e Berlusconi, consapevoli di quelli che sarebbero stati gli imminenti risultati, abbiano parlato del dopo voto o piuttosto del dopo dopo voto?
Invito tutti ad osservare con attenzione le mosse, nei prossimi mesi, di Carlo Calenda, che ha già cominciato a muoversi sullo scenario con gran frastuono, annunciando l'adesione al Pd e sbattendo simultaneamente la porta in faccia al M5S.
Pino Cabras recentemente ha scritto su di lui questa breve nota:

“Da qualche giorno vedo Carlo Calenda sempre più pompato su tanti canali televisivi. Stanno preparando mediaticamente il Macron italiano? Ossia un prodotto sfornato direttamente dalle officine dell’élite atlantista come un avatar telegenico che deve dare un volto elettoralmente fungibile agli interessi della grande finanza, di cui è espressione immediata. L'unica differenza con Macron è che non si è candidato, nel solco tradizionale italiano delle "riserve della repubblica" e dei "governi tecnici" che non passano per le urne, non sia mai. Il gioco, a occhi smaliziati, appare abbastanza scoperto: Calenda cala la carta della solidità, del realismo, che funziona molto in questa fase. Perché, mi domando, sta facendo il giro delle sette chiese di tutte le tv? Dove appare sempre in trasmissioni con un target piuttosto preciso, Annunziata, Berlinguer, Formigli. Gli cuciono addosso così il vestito del vincente (cioè: ha degli spin doctor che gli fumano). A occhio e croce, memori degli altri governi tecnici, è una disgrazia che faremmo bene a evitarci, dopo il 4 marzo”.

Sottolineerei soprattutto l'aspetto del “Macron italiano”.
I parallelismi non mancano.
In Francia, mentre la sinistra (il partito socialista) andava a liquefarsi, ecco che dalle sue pieghe usciva questo ex ministro economico, poco conosciuto alle masse ma che si era fatto notare per piglio decisionista e dinamicità. Preciso riferimento di certa finanza e poteri industriali, la sua discesa in campo andava a sparigliare il campo: la sinistra in grande difficoltà, il centro diviso, i populisti in forte e preoccupante ascesa. Si determinava un “effetto Macron” che portava questa novità, quasi comparsa dal nulla, nel giro di pochi mesi a ricompattare intorno alla sua figura il quadro politico moderato vincendo trionfalmente le presidenziali.
Di Calenda vanno poi evidenziati un paio di aspetti. Suo mentore, dal punto di vista sia professionale che politico, è Luca Cordero Di Montezemolo. Costui non è mai riuscito a fare il salto in politica in prima persona per palese mancanza di carisma, ma le sue entrature e appoggi sono indubbi.
Calenda è altresì figlio della nota regista Cristina Comencini e nipote del molto più celebre Luigi Comencini, uno dei maestri della cinematografia italiana. È in tal senso perfettamente inserito in tutta quella intellighenzia culturale italiana dei salotti buoni (immaginiamo, metaforicamente ma non troppo, in adorazione verso di lui i tanti Virzì, Fabio Fazio, Michele Serra…) e per nulla sprovveduto in materia di uso dei mezzi di comunicazione (tra gli altri incarichi è stato responsabile marketing di Sky).
Sembra l'identikit perfetto per poter incarnare un effetto Macron.
Se ciò non bastasse, tra qualche tempo Mario Draghi finirà in suo mandato alla Banca centrale europea e potrebbe essere pronto per una qualunque necessità.
Offro dunque questa chiave di lettura per leggere in controluce gli avvenimenti che si succederanno nel prossimo futuro e che, in un modo o nell'altro, porteranno alla risoluzione del rebus politico italiano.